Lavoro e vita familiare, restano ampie le disuguaglianze nell’accesso ai servizi
Le più svantaggiate le famiglie residenti nel Mezzogiorno e nei Comuni più piccoli: «Favorire la frequenza del nido da parte di bambini provenienti da famiglie a basso reddito può incidere positivamente sulla partecipazione al mondo del lavoro, riducendo anche il divario di genere»
di Redazione
Uno dei temi più dibattuti degli ultimi anni è la crisi demografica che ha colpito diversi paesi, Italia in particolare. Le ragioni sono molteplici, spesso interconnesse e hanno molto a che fare con questioni legate al mercato del lavoro, i divari di genere che permangono ad alti livelli (pur in presenza di miglioramenti registrati negli ultimi periodi), ancora i divari reddituali e la possibilità di accedere a strutture che permettano ai genitori, e in particolare proprio alle madri, di conciliare vita lavorativa e vita familiare. Per dirla con l’Istat nel report Offerta di nidi e servizi integrativi per la prima infanzia – Anno educativo 2020-2021, «favorire la frequenza del nido da parte di bambini provenienti da famiglie a basso reddito può spezzare il circolo vizioso dello svantaggio sociale e incidere positivamente sulla partecipazione al mondo del lavoro, riducendo anche il divario di genere».
Ma in Italia, osserva ancora l’Istat, «resta ancora molta strada da fare per garantire un’equa accessibilità dei servizi dal punto di vista socio-economico: infatti i tassi di frequenza del nido crescono all’aumentare della fascia di reddito delle famiglie e sono decisamente più alti se la madre lavora e se i genitori hanno un titolo di studio elevato». Dal punto di vista della disponibilità dei servizi sul territorio, ad esempio, restano ampissimi divari a sfavore delle famiglie residenti nel Mezzogiorno e nei Comuni più piccoli. Il Nord-est e il Centro Italia, alla fine del 2020 – rileva l’Istituto nazionale di statistica –, consolidano la copertura dei posti disponibili rispetto ai bambini sotto i tre anni sopra il target europeo del 33% (rispettivamente 35% e 36,1%); il Nord-ovest è sotto l’obiettivo, ma non è distante (30,8%), mentre le Isole (15,9%) e il Sud (15,2%), che pur registrano un lieve miglioramento, sono ancora lontani dal target.
A livello regionale i livelli di copertura più alti si registrano in Umbria (44%), seguita da Emilia Romagna (40,7%) e Valle d’Aosta-Vallée d’Aoste (40,6%), Toscana (37,6%) e Provincia Autonoma di Trento (37,9%). Anche il Lazio e il Friuli-Venezia Giulia dal 2019 hanno superato la soglia del 33% (rispettivamente 35,3% e 34,8%), in coda Campania e Calabria, ancora sotto il 12%. I capoluoghi di provincia hanno in media il 34,3% di copertura, ma con ampie distanze: quelli umbri al 47% e quelli siciliani all’11,6%. Sono ben 65 le città capoluogo con valori maggiori o uguali al 33%, mentre le rimanenti 44 restano sotto il target. I Comuni non capoluogo si attestano in media a 24,2 posti per 100 residenti sotto i tre anni (23,9% nel 2019). In termini di offerta pubblica sui posti complessivi, la maggior parte delle regioni meridionali ha una quota di posti nei servizi educativi a titolarità comunale inferiore al 50% e una spesa media dei Comuni per bambino residente ben sotto il valore nazionale. Le regioni del Centro-nord che hanno superato il 33%, invece, hanno un’offerta pubblica molto consistente e radicata e anche quando le quote di pubblico sono inferiori al 50% i livelli di spesa dei Comuni sono comunque alti, non solo per la gestione dei nidi comunali, ma anche per il convenzionamento con i servizi privati.