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Lo Stato islamico in Europa

I terroristi dello Stato islamico vogliono esportare il jihad oltre i confini del sedicente califfato che si estende tra l'Iraq e la Siria. Ecco come intendono farlo
di Mirko Spadoni

schermata-2016-09-14-alle-14-31-07Una lunga e articolata inchiesta della CNN sostiene che i terroristi dello Stato islamico (IS) avevano in mente ben altro per il 13 novembre del 2015. Dopo aver analizzato centinaia di documenti ufficiali – il lavoro dei reporter della CNN è durato mesi –, l’indagine rivela che l’IS non intendeva attaccare solo Parigi. Simultaneamente agli attentati nella capitale francese, che hanno causato la morte di 130 persone e il ferimento di altre 368, gli jihadisti dello Stato islamico avrebbero dovuto condurre altri attacchi in luoghi di shopping in Olanda e in Francia. Le cose non sono andate secondo i piani iniziali, ma ciò non toglie che gli attentati compiuti a Parigi hanno richiesto una preparazione rigorosa e una discrezione notevole. I terroristi non hanno agito autonomamente, ma seguendo precise indicazioni fornitegli dai vertici militari dello Stato islamico e in particolare da una sua sezione: Emni, termine che tradotto dall’arabo vuol dire “sicurezza” e viene utilizzato per indicare la “sicurezza di Stato”.

COME FUNZIONA EMNI
Oltre al suo incarico iniziale – condurre interrogatori e stanare le spie all’interno dell’organizzazione –, Emni ha un compito ancor più impegnativo: organizzare gli attentati nei Paesi lontani dal sedicente califfato, selezionando e addestrando gli jihadisti più idonei allo scopo. Harry Sarfo, un cittadino tedesco che nel 2015 si arruolò nell’IS, era uno di questi. Salvo poi fuggire dalla Siria, venire arrestato dalle autorità tedesche – Sarfo è detenuto in una prigione di massima sicurezza, vicino Brema – e raccontare come funziona Emni alla giornalista del New York Times, Rukmini Callimachi. Dalla testimonianza di Sarfo emerge l’elevata pericolosità di questa sezione dell’IS – i suoi uomini vengono scelti accuratamente e sottoposti ad un addestramento militare durissimo – che pochi giorni fa ha perso il suo capo: il portavoce dello Stato islamico, Abu Muhammad al Adnani, rimasto ucciso in un bombardamento nei pressi di Aleppo, in Siria. Pur essendo stata privata di una figura fondamentale – Daniele Raineri del Foglio scrive che al Adnani ha contribuito a rendere lo Stato islamico l’organizzazione che conosciamo oggi –, Emni resta una minaccia per i Paesi occidentali. Sarfo ha raccontato agli investigatori che Emni ha inviato i suoi uomini in Austria, Bangladesh, Germania, Indonesia, Libano, Malesia, Spagna e Tunisia. Nell’elenco non figura l’Italia. Ma ciò non significa che il nostro Paese non sia interessato dal fenomeno jihadista, ovviamente.

I FOREIGN FIGHTERS ITALIANI
Un recente rapporto dell’International Centre for Counter-Terrorism (ICCT) osserva che l’Italia presenta significative differenze rispetto agli altri Paesi europei: da una parte, il contingente di jihadisti italiani in Siria è molto ridotto – le istituzioni non hanno fornito una cifra esatta, ma il numero non dovrebbe superare le cento unità –, dall’altra l’Italia rappresenta un Paese di transito molto importante per una parte dei foreign fighters che torna dalla Siria e dall’Iraq: l’ICCT sottolinea che il 30% dei foreign fighters provenienti dall’Unione europea, il cui numero complessivo oscilla tra le 3.922 e le 4.294 unità, è tornato nel Paese d’origine.
Non tutti gli jihadisti italiani presenti in Siria sono ancora in vita – lo scorso ottobre il ministero dell’Interno riferiva che 18 di loro erano morti – e non tutti si sono arruolati nello Stato islamico: in quindici combattono sotto le insegne del sedicente califfato, sette fanno parte di alcuni gruppi dei cosiddetti ribelli e due sono entrati nelle fila di Jabhat al Nusra, la formazione che solo qualche settimana fa si è staccata dal network di al Qaeda e ha cambiato nome in Jabhat Fath al Sham. Quello relativo ai foreign fighters non è un problema soltanto dell’Italia o dei suoi partner europei, però. Un dossier del Soufan Group diffuso a dicembre 2015 stima che tra le 27 e le 31mila persone, la maggior parte delle quali provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa del Nord, hanno raggiunto la Siria e l’Iraq per arruolarsi nello Stato islamico o in altre organizzazioni estremiste. Nel giugno del 2014 — il calcolo è sempre del Soufan Group — , i foreign fighters erano molti di meno: 12mila circa.

RUMIYAH, LA NUOVA RIVISTA DELL’IS
I terroristi dello Stato islamico hanno un attenzione maniacale per la propaganda – ve ne avevamo già parlato qui – e per il loro ultimo prodotto editoriale hanno scelto un nome significativo: lunedì 5 settembre l’IS ha lanciato una nuova rivista Rumiyah, una forma arcaica della parola Roma. La rivista è destinata a un pubblico molto vasto: viene pubblicata in sette lingue, tra cui l’arabo, il francese, l’inglese, il russo e l’uiguro (la lingua più diffusa tra i musulmani cinesi). Attraverso i suoi prodotti editoriali (video, riviste…), lo Stato islamico intende raggiungere diversi obiettivi: ad esempio, cerca di convincere gli aspiranti jihadisti ad emigrare (hiğra) nel sedicente califfato o li sollecita a condurre attentati nei rispettivi Paesi.

SULLE TRACCE DEGLI ESTREMISTI
Seguendo i metodi di indagine delle autorità belghe e francesi, Mitch Prothero ha realizzato una lunga inchiesta per Buzzfeed – Why Europe Can’t Find The Jihadis In Its Midst –, evidenziando le enormi difficoltà incontrate dagli investigatori europei. L’elevato numero di jihadisti (o presunti tali) da seguire non è la loro unica preoccupazione: l’inchiesta, che ha impegnato Prothero per un anno intero, sostiene che i legami nati tra le cellule jihadiste e le organizzazioni criminali (specialmente quelle balcaniche) rendono tutto più complicato. Ma il legame tra i narcotrafficanti e i terroristi non è propriamente una novità, purtroppo.

Leggi anche:
Lo Stato islamico in Africa

 

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