Le armi della Bce contro la deflazione
Con la febbre a 39, il medico coscienzioso prescrive un farmaco per abbassarla e una terapia idonea a sconfiggere, non tanto la febbre che è un sintomo, ma la malattia che ne è la causa. Ma se, anziché alta, la temperatura del corpo fosse troppo bassa (34 gradi o addirittura meno), la questione sarebbe molto più preoccupante e, dopo le opportune verifiche su un eventuale malfunzionamento del termometro, il medico avvertirebbe immediatamente il pronto intervento, raccomandando una squadra di rianimazione pronta a tenere in vita il malcapitato. Infatti, poiché siamo animali a sangue caldo, l’ipotermia, cioè la temperatura corporea eccessivamente bassa, è un sintomo assai più pericoloso dell’ipertermia, cioè la temperatura più alta del normale.
Le economie in generale, e quelle occidentali in particolare, sono sistemi “a sangue caldo”, che per stare bene hanno bisogno di avere la temperatura sopra un certo livello. La temperatura dei sistemi economici si chiama inflazione. Quando l’inflazione si aggira intorno al 2%, vuol dire che non c’è febbre. Ci possono naturalmente essere altri generi di problematiche, ma la temperatura è quella giusta. Se l’inflazione cresce eccessivamente possono essere adottate una serie di terapie economiche per abbassarla e tenerla sotto controllo. In alcuni casi, la crescita dell’inflazione è addirittura un fattore competitivo, così come un corpo, sollecitato a compiere prestazioni, registra un aumento della temperatura.
Il circolo vizioso
Come per la febbre, il problema diventa terribilmente serio quando l’inflazione è troppo bassa e lo spettro della deflazione (cioè una diminuzione generale dei prezzi) comincia a materializzarsi. La causa deriva prevalentemente dalla debolezza della domanda. Le imprese, infatti, non riuscendo a vendere i propri prodotti a determinati prezzi cercano di collocarli sul mercato a prezzi sempre più bassi. L’abbassamento dei prezzi si ripercuote, però, sui ricavi che le imprese cercano di compensare con una diminuzione dei costi di produzione, che avviene a sua volta attraverso l’acquisto di beni e servizi da parte dell’impresa stessa di prezzo inferiore, alimentando così una spirale negativa.
Quando si avvia una fase deflattiva, la riduzione dei prezzi non stimola maggiori acquisti bensì l’accumulo di liquidità, perché i consumatori rinviano l’acquisto di ciò di cui hanno bisogno in attesa che i prezzi scendano ulteriormente. Quando si teme che l’indomani il prezzo possa salire, si tende, invece, ad acquistare subito per evitare di pagare di più lo stesso bene. Nelle fasi di deflazione, è facile che si registri una diminuzione dei consumi, una crescita del risparmio e un aumento dei tassi di disoccupazione. Ecco perché è proprio lo spettro della deflazione, oggi, a complicare gli scenari futuri dei Paesi dell’eurozona.
La buona notizia arriva dalla BCE che sta studiando un piano da mille miliardi di euro con l’obiettivo di far salire l’inflazione rispetto allo striminzito 0,5% registrato a marzo.
Gli strumenti e le modalità fanno pensare a quelli messi in campo da oltre un anno dalla Fed, cioè la banca centrale statunitense, per stimolare l’economia Usa. Il piano della BCE prevedrebbe (il condizionale naturalmente è d’obbligo) l’immissione nel sistema di 80 miliardi di euro al mese per un anno. Soldi che, questa volta, dovrebbero trasformarsi in credito per famiglie e imprese, e non ciambelle per le banche.
Anche perché l’Europa è tutt’altro che fuori dal tunnel della crisi e la “crescita lumaca” (e senza occupazione) che si preannuncia quest’anno, si traduce in una fuga in avanti degli Usa, del Giappone e delle economie emergenti, i cui ritmi di crescita sono decisamente più veloci rispetto a quelli europei, azzoppati dalle cure del rigore messe a punto da Bruxelles.
Quanto la velocità della crescita sia decisiva e che le prospettive dell’eurozona siano tutt’altro che rosee lo si deduce anche dal 4° Rapporto trimestrale (2013) realizzato dal Dipartimento Economia e Finanze della Commissione Europea. Un’analisi che in Italia è passata in sordina, ma che conferma quanto abbiamo diverse volte anticipato rispetto alle prospettive dell’area euro e dell’Italia. In uno scenario “no-policy change”, ossia senza nessun cambiamento a livello di politiche condotte dai Paesi dell’eurozona, il rapporto mostra come le prospettive di crescita, nei prossimi 10 anni, siano decisamente più basse rispetto al periodo pre-crisi.
Nello stesso periodo di tempo (2014-2023), la media della crescita degli Stati Uniti sarà analoga al periodo pre-crisi, mentre quella dell’Europa sarà meno della metà di quella statunitense (+1% rispetto a +2,5%).
Secondo gli autori del rapporto, al ritmo attuale e senza politiche adeguate e riforme strutturali che rimuovano “le rigidità nell’allocazione delle risorse”, l’eurozona potrebbe tornare ai livelli di crescita pre-crisi solo dopo il 2023, nel momento in cui il contributo della lenta ripresa dell’occupazione e dei capitali tornerà a farsi sentire.
L’esempio della Fed
Quanto emerge da questo report non è una novità, ma una conferma: se non riparte l’occupazione, non inizia la ripresa. D’altronde, non è un caso che la Fed abbia iniziato da tempo quegli stimoli all’economia che solo adesso la BCE inizia a pianificare. Durante una fase di crisi, l’obiettivo è mettere più persone possibili al lavoro e stimolare la domanda interna, facendo in modo che le persone consumino di più e di conseguenza le imprese siano indotte a produrre di più. Tutto ciò si basa sulla premessa condivisa delle economie occidentali, che la spesa di uno rappresenta il reddito di un altro.
Come sia stato possibile anche soltanto immaginare di poter uscire dalla crisi senza sostenere l’occupazione e la domanda interna, ma utilizzando soltanto politiche centrate sul rigore di bilancio resta ancora un mistero. E, infatti, il rapporto della Commissione Europea è critico anche sulle politiche dell’austerity messe in campo in questi anni. E l’incoerenza tra le analisi degli uffici studi (da quelli della Commissione Europea a quelli del FMI) e le politiche adottate è talmente evidente da far venire più di un sospetto riguardo l’apparente neutralità delle scelte.
Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 7 aprile 2014. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf.
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