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Il futuro delle città

Ripensare le metropoli e gli agglomerati urbani non è un concetto che nasce con la pandemia, ma quest’ultima potrebbe ora accelerare un processo già avviato. Smart working, nuove esigenze e rinnovate abitudini (anche di consumo) daranno vita e forma alle metropoli di domani. Ma in che modo?

di Fabio Germani

Chi ha potuto farlo in tempo, ha abbandonato le città. È tornato nelle case di origine, in provincia o in campagna. Non è stato per comprensione dell’importanza della vita bucolica, ma per necessità. È accaduto a Parigi, “svuotata” nelle prime fasi della pandemia, ma anche altrove, in Italia o negli Stati Uniti. Non sappiamo davvero quali cambiamenti ci riserverà il futuro, in compenso possiamo pronosticare che molti di quei cambiamenti saranno determinati da quanto abbiamo osservato nelle ultime settimane. Quale sarà, allora, il nostro rapporto con le città? Come muteranno le nostre vite urbane?

Ripensare le città – per arrivare dritti al punto – non è un concetto che nasce con la pandemia. Il dibattito è aperto già da un po’, da qualche anno si parla infatti di smart cities – città intelligenti, economicamente sostenibili e ad alto contenuto tecnologico, dove la mobilità è progettata in funzione dei cittadini e dell’ambiente, luoghi cioè in grado di soddisfare le esigenze di chiunque migliorandone la qualità della vita – come ideale sviluppo degli agglomerati urbani novecenteschi, già teatri di profondi cambiamenti sociali e ricettacolo, per molte persone, di grandi ambizioni professionali e lavorative. Per comprendere cosa siano state e abbiano rappresentato le metropoli nel secolo scorso, potrebbe essere sufficiente leggere un romanzo o guardare film o serie tv ambientati a New York, la città che più di tutte nel mondo occidentale ha contribuito a mitizzare la frenetica quotidianità della “giungla urbana”. 

Eppure, è da New York che indirettamente viene lanciato l’allarme. Se cambia il metodo di lavoro in favore dello smart working (con tutti i limiti che cela tale definizione), quale potrà mai essere il futuro delle città, in particolare quelle legate al business, alle grandi aziende e alla finanza? Manhattan è già un caso di scuola. Molte compagnie, obbligate a impiegare i dipendenti da casa per via del coronavirus, stanno valutando di prolungare le modalità del lavoro a distanza, considerato che gli strumenti tecnologici di cui oggi disponiamo – al netto delle valutazioni sulla rilevanza delle interazioni face to face che non verrebbero per forza eliminate, semmai limitate – non solo permettono di colmare qualsiasi vuoto altrimenti provocato dall’emergenza sanitaria, ma riescono anche a mantenere gli stessi livelli di produttività degli addetti. Poi, certo, riguardo il lavoro e volgendo lo sguardo fuori dall’America, il discorso è più complesso di così: c’è il problema dell’accesso a internet veloce, la sicurezza dei personal computer e diverse altre questioni che andranno affrontate per rendere lo smart working il più efficiente possibile. Ma restando a Manhattan e più in generale alle metropoli statunitensi, sembra ormai essere un’ipotesi non più da scartare. Da parte delle imprese, il principale vantaggio sarà l’abbattimento di alcuni costi fissi, mentre da parte dei lavoratori la riconquista di spazi e ritagli di tempo – guadagnati evitando di fare ogni giorno il tragitto casa-lavoro-lavoro-casa, il che condizionerà anche le abitudini di consumo –, da coniugare con le ore passate a svolgere le proprie mansioni lavorative. Tuttavia alcuni settori ne risentirebbero, a partire dal mercato immobiliare – spesso utilizzato quale metro di valutazione per lo stato di salute di un’economia – che potrebbe registrare un’inevitabile riduzione degli affitti per gli uffici e mancati introiti dalle compravendite dei grandi edifici, passando per le forniture elettriche, fino ad arrivare al trasporto pubblico (un problema che coinvolgerebbe di conseguenza le casse municipali) e ai bar o ai ristoranti i cui ricavi si reggono soprattutto grazie alle pause pranzo dei dipendenti delle aziende.

È uno scenario che si fa oggettivamente fatica a ritenere oggi sostenibile, ma questo non significa che non possa realizzarsi. Un solo cambiamento, anche di tipo urbanistico, può portare in dote un numero elevato di ulteriori stravolgimenti, a decine almeno. E alcuni esempi del passato, talvolta negativi, sono ancora lì a ricordarlo. Proprio a New York, la costruzione tra gli anni ’40 e ’70 della Cross-Bronx Expressway, opera dell’architetto Robert Moses, rappresentò una “ferita” nel distretto, deprezzando le case nei dintorni della gigantesca e trafficatissima arteria e mettendo le persone nelle condizioni di traslocare e abbandonare le attività. Il risultato? Un crescente degrado e l’immagine – spesso stereotipata e resa famosa dal cinema e dalla tv – del malfamato South Bronx. Ma è una circostanza, quest’ultima, che si è verificata in maniera analoga in molte città del mondo, comprese le metropoli europee. Mentre il “centro” prosperava, la “periferia” veniva a mano a mano abbandonata, allargando la frammentazione del tessuto sociale. Non è un caso se la pandemia ha colpito, per impatto economico e sociale, soprattutto le zone periferiche e suburbane delle grandi città, spesso sprovviste di servizi essenziali e di adeguate strutture ricreative e culturali.

Pur con tutti i dubbi del caso, va da sé che le città dovranno essere rimodellate sulla base di nuove esigenze, ma principalmente allo scopo di evitare rinnovate distanze tra i diversi strati della popolazione che in situazioni di emergenza accrescono i problemi, ritardando perciò le soluzioni. Se realmente biciclette e monopattini elettrici verranno utilizzati con frequenza per gli spostamenti nei quartieri, sarà allora opportuno progettare piste o corsie preferenziali anche in periferia. Andranno facilitati i collegamenti per evitare l’uso massiccio di automobili private, immaginati ampi parchi e aree di libero accesso che consentano il distanziamento fisico quando necessario (fatto che purtroppo non possiamo più escludere). Andrà ripensato lo stesso mercato immobiliare: appartamenti troppo piccoli non sono il massimo per vivere un eventuale isolamento, specie per le famiglie costrette in pochi metri quadri. Servirà, inoltre, riqualificare i vecchi edifici abbandonati, che potranno ospitare le persone meno fortunate oppure essere riconvertiti in strutture ospedaliere e scolastiche.

I servizi pubblici che hanno trasformato le città nel XX secolo, da soli, non bastano più. Anche questa sarà una rivoluzione culturale, perché il cambiamento non avverrà a senso unico, ma riguarderà ogni aspetto dell’essere parte di una comunità. L’alternativa sarà la desertificazione e la scomparsa delle città per come le conosciamo oggi.  

@fabiogermani

 

3 Commenti per “Il futuro delle città”

  1. […] altre attività economiche (servizi, bar e ristoranti) appare piuttosto vivace, Italia compresa (su T-Mag abbiamo già affrontato l’argomento in due precedenti occasioni). Resta il fatto, ad ogni modo, che il tema ambiente resta fondamentale […]

  2. […] accadere in futuro, in ogni caso, resta un’incognita: il ricorso alle forme di work from home potrà avere delle ripercussioni su alcune specifiche attività economiche e commerciali (la ristorazione, i trasporti, alcuni servizi) e sul mercato immobiliare. Le scelte residenziali […]

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