Usa 2020. Gli scenari a poche settimane dal voto | T-Mag | il magazine di Tecnè

Usa 2020. Gli scenari a poche settimane dal voto

Pandemia, proteste e “transizioni non ordinate”. L’indomani del dibattito tra i vice Pence e Harris, T-Mag prova a fare il punto della situazione con Elena Corradi, ricercatrice ISPI e componente della redazione Weekly Focus USA2020 dell’istituto

di Fabio Germani

Che la campagna elettorale del 2020 sia tra le più incredibili di sempre, non servono ulteriori prove per capirlo. Anzi, a questo punto, sarebbe auspicabile un’interruzione dei colpi di scena. La pandemia, che già di per sé sarebbe abbastanza, ha fatto da cornice ad un clima piuttosto esasperato negli Stati Uniti. Proteste nelle metropoli, violenze, economia in difficoltà, incendi, due visioni dell’America – impersonate dai candidati alla Casa Bianca, il presidente uscente Donald Trump e l’ex vicepresidente democratico Joe Biden – diametralmente opposte e poco inclini al dialogo. A complicare le cose ci si è messo anche lo stato di salute del presidente Trump, risultato positivo al coronavirus alcuni giorni fa. Ma prima che l’ennesimo colpo di scena prendesse il sopravvento mediatico, c’era stata più di una questione rimasta senza risposta, soprattutto quando l’attuale inquilino della Casa Bianca non ha escluso la possibilità di una transizione non ordinata in caso di sconfitta il 3 novembre (concetto che è stato poi in qualche misura ribadito nel controverso primo dibattito tra i due candidati, il 29 settembre), nella convinzione che un massiccio ricorso al voto per posta possa invalidare l’esito delle elezioni. Cosa starebbe a  significare, allora, tale ipotesi? T-Mag lo ha chiesto a Elena Corradi, ricercatrice ISPI e componente della redazione Weekly Focus USA2020 dell’istituto.

Per diverse settimane il dibattito politico americano è ruotato attorno al tema del voto per corrispondenza, procedura che si è resa opportuna a causa della pandemia e già adottata in alcuni Stati. In realtà non si tratta di una novità negli Stati Uniti, eppure il presidente Trump ha più volte sostenuto che la modalità non può escludere la possibilità di brogli. Come funziona il voto per posta negli Stati Uniti e davvero esiste un rischio di questo tipo?

È passato ormai oltre un secolo e mezzo dalla spedizione delle prime schede elettorali negli Stati Uniti da parte dei soldati americani durante la Guerra Civile. Negli anni, sempre più americani hanno optato per il voto via posta: lo hanno fatto ben 33 milioni di loro quattro anni fa. Un numero che potrebbe più che raddoppiare alle elezioni presidenziali di quest’anno, per le quali si prevedono 80 milioni di voti postali. Negli Stati Uniti esistono due principali sistemi di voto a distanza: absentee voting (voto in assenza), per chi non riesce a recarsi alle urne, e vote by mail (voto via posta), aperto a tutti i cittadini. In tutti i 50 Stati esiste qualche forma di absentee voting, seppure con modalità differenti: in alcuni si può votare in assenza senza il bisogno di alcuna giustificazione, in altri invece si può richiedere la scheda elettorale a casa solo se si ha un motivo considerato valido. Gli Stati che invece utilizzano tradizionalmente un sistema di voto via posta aperto a tutti i cittadini sono solo cinque.
Dall’inizio della pandemia, molti stati si sono attrezzati per rendere possibile il voto a distanza e minimizzare così gli assembramenti ai seggi durante l’emergenza sanitaria. Quest’anno sono solo cinque gli Stati dove il coronavirus non è considerato un motivo valido per votare via posta. Negli ultimi mesi, Trump ha fortemente attaccato il voto via posta, ma si è invece espresso a favore del voto in assenza, che lui stesso utilizza, dichiarando che quest’ultima è una procedura meno vulnerabile a possibili frodi. I dati, però, mostrano altro: nella pratica, i due sistemi sono molto simili e, soprattutto, in entrambi i casi le possibilità di frode sono minime.

In generale, la principale preoccupazione dei Repubblicani è che il voto per posta possa avvantaggiare gli avversari. È in effetti una possibilità, a suo avviso?

I sondaggi e i primi dati sul voto mostrano che effettivamente sono gli elettori democratici a votare di più via posta: a metà agosto, il 47% dei sostenitori di Biden ha detto di voler votare via posta, contro solo l’11% dei sostenitori di Trump; a fine settembre, dei nove milioni di elettori che hanno richiesto le schede elettorali via posta in Florida, Pennsylvania, North Carolina, Maine e Iowa – cinque stati in bilico che rilasciano informazioni a riguardo – il 52% erano elettori registrati dem, il 28% rep. Secondo sondaggi vicini ai democratici, se il 3 novembre la cartina degli Stati Uniti potrebbe colorarsi di rosso (il colore del partito repubblicano), una settimana dopo, quando si saranno contati i voti arrivati per posta, lo scenario potrebbe ribaltarsi.

I democratici, dunque, dovrebbero guadagnarci…

Se finora i democratici hanno spinto per espandere la possibilità di votare via posta, nelle ultime settimane, però, alcuni dei rappresentanti del partito hanno avuto qualche ripensamento. Il fatto che molti elettori dem si affidano al voto postale ha infatti i suoi svantaggi. C’è il rischio che le schede elettorali vengano rifiutate per vizi procedurali, come una mancata firma o la spedizione della scheda fuori tempo massimo. Casi recenti hanno mostrato l’impatto che questo potrebbe avere sul risultato del voto: alle primarie di quest’anno in Wisconsin, per esempio, sono state oltre 23 mila le schede rifiutate, più della differenza di voti che aveva fatto vincere Trump nel 2016 in quello Stato. Dal canto loro, i repubblicani stanno tentando di irrigidire le regole per accettare le schede elettorali che arrivano via posta. In Pennsylvania – uno dei principali Stati in bilico – è stato deciso negli ultimi giorni che non verranno contate le schede che non saranno chiuse in due buste diverse, una regola che avrebbe squalificato ben un voto su 16 alle municipali in Philadelphia l’anno scorso. In un’elezione dove in molti temono che il risultato non venga accettato dai candidati, la battaglia si gioca fino all’ultimo voto.

Photo by David Everett Strickler on Unsplash

Quando gli sono state chieste rassicurazioni su una “transizione pacifica” in caso di sconfitta, Trump ha risposto in maniera evasiva, non escludendo, con un esito elettorale incerto, il ricorso alla Corte Suprema. Proviamo a immaginare questo scenario: il 3 novembre Joe Biden vince le elezioni, ma il presidente uscente non riconosce la vittoria all’avversario. Cosa succede?

La possibilità che uno dei due contendenti non accetti il risultato del voto sarà tanto più alta quanto minore sarà lo scarto tra i due. In altre parole, sarà difficile che un risultato netto venga contestato. Anche qui la partita si gioca sugli Stati in bilico: in caso di esito incerto, c’è tempo fino all’8 dicembre perché ogni Stato possa risolvere eventuali dispute e decidere a chi assegnare i propri grandi elettori. Dispute che in passato sono finite davanti alla Corte Suprema, come nel caso della sfida tra George W. Bush e Al Gore nel 2000, decisa da una sentenza della Corte che bloccò il riconteggio dei voti in Florida. Non è quindi un caso che Trump abbia spinto per far approvare Amy Coney Barrett, la sua nuova nomina alla Corte Suprema, prima delle elezioni. Dopo che i grandi elettori sono stati assegnati, il Collegio elettorale che li riunisce vota poi ufficialmente il presidente il 14 dicembre, con il nuovo Congresso che conta i voti e dichiara il vincitore il 6 gennaio. Nel caso in cui i due candidati non dovessero raggiungere un accordo sul risultato e nel conteggio ufficiale Senato e Camera arrivassero a conclusioni diverse, il mandato presidenziale dovrà comunque concludersi entro il 20 gennaio, giorno in cui la Costituzione ne stabilisce la fine. Se entro allora repubblicani e democratici non trovassero un accordo, la presidenza passerebbe pro tempore allo Speaker della Camera, in attesa che si trovi una soluzione. Anche qui potrebbe esprimersi la Corte Suprema, ma la verità è che si entrerebbe in un territorio inesplorato, mai verificatosi in precedenza e senza regole chiare su come gestire la situazione.

Photo by Claire Anderson on Unsplash

Altra questione fondamentale in questi giorni è la nomina, cui faceva riferimento prima, del nuovo giudice della Corte Suprema dopo la morte di Ruth Bader Ginsburg. In termini politici, sono chiare le motivazioni che spingono i repubblicani ad assicurare il voto sulla nomina entro l’anno, come annunciato dal leader di maggioranza al Senato, Mitch McConnell. Ma in termini elettorali, l’accelerazione sul processo di nomina può portare benefici al presidente o, al contrario, può rappresentare un ostacolo alla sua rielezione?

Il presidente è un vorace consumatore di sondaggi e sa che l’80% circa dei repubblicani vorrebbe che il nuovo giudice venisse nominato dal presidente in carica, contro una media nazionale del 50%. Spingere per la conferma al Senato di Amy Coney Barrett sarebbe dunque un gesto gradito al suo elettorato. D’altra parte, aspettare fino a dopo le elezioni potrebbe invece dare agli elettori conservatori un ulteriore incentivo a votare per Trump e i repubblicani in modo da garantirsi una Corte più conservatrice per molti anni a venire, dato che i giudici federali sono nominati a vita. A tranquillizzare Trump c’è anche il fatto che, se pure dovesse perdere le elezioni, il presidente uscente avrebbe tempo fino al 3 gennaio – data di insediamento del nuovo Congresso – per confermare il nuovo giudice supremo. Infine, l’irruzione del coronavirus alla Casa Bianca e al Campidoglio offre un’altra ragione per procedere con calma al voto in Senato: ad oggi sono tre i senatori repubblicani positivi e che non potrebbero quindi partecipare alla votazione, ai quali si aggiungerebbero i due senatori che si sono espressi contro la nomina di Coney Barrett. Numeri che renderebbero tutt’altro che certa la vittoria dei rep, che oggi godono di una maggioranza di 53 a 47 al Senato.

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Gestione della pandemia, crisi economica, proteste, politica estera: quale di questi è il tema che condizionerà maggiormente le scelte di voto degli elettori americani? 

Le elezioni americane 2020 si sono contraddistinte per un numero incredibile di imprevisti e colpi di scena che hanno guidato l’attenzione pubblica da un argomento all’altro: dall’emergenza sanitaria alla crisi economica, dalle proteste di Black Lives Matter all’inaspettato accordo tra Israele e paesi del Golfo patrocinato da Washington, dalla battaglia per la Corte Suprema agli incendi sulla West Coast. Tutti temi che sono stati al centro del dibattito pubblico e che hanno diviso gli elettori, ma la cui importanza relativa nel determinare il voto di novembre sarà difficile da misurare con precisione. Con l’ultimo bollettino medico del presidente, però, negli USA si è tornati a parlare della questione che più di tutte ha segnato il 2020: il coronavirus, che ha causato oltre 210 mila morti negli Stati Uniti. A dimostrare quanto il coronavirus sia tornato al centro della scena sono le dichiarazioni e gli atteggiamenti di Trump dalla notizia della sua positività. Le informazioni sulla gravità del suo stato sono state inizialmente confuse – il suo stesso dottore ha ammesso che il primo giorno aveva ritratto un quadro clinico migliore di quello reale – assecondando il tentativo del presidente di ridimensionare l’accaduto («Non bisogna lasciare che il coronavirus domini le vostre vite», ha detto). Dopo averlo minimizzato per mesi, Trump tenta ora di presentare il virus come qualcosa che si può battere con forza di volontà e determinazione e la sua malattia come una conseguenza inevitabile del suo ruolo di presidente.

@fabiogermani

Le puntate precedenti
Usa 2020. Gli americani e la pandemia
Usa 2020. Il primo dibattito tra Trump e Biden
Usa 2020. Breve storia dei dibattiti televisivi
Usa 2020. Come cambia la geografia politica
Usa 2020. Una partita ancora incerta, intervista a Marco Sioli, professore di Storia e istituzioni delle Americhe all’Università degli Studi di Milano
Usa 2020. L’importanza degli Stati in bilico
Usa 2020. La pandemia preoccupa gli elettori

 

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